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Danno da morte (tanatologico): le Sezioni Unite del 2015 ne escludono la risarcibilità.

La Cass. civ. 22-07-2015, n. 15350 in materia di danno alla persona, sua liquidazione e valutazione, ha statuito a Sezioni Unite che “Il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua alle lesioni subite, decorre dal momento in cui sono provocate le lesioni, sino a quello della morte conseguente alle lesioni medesime; tale diritto si acquisisce al patrimonio del danneggiato ed è suscettibile di trasmissione agli eredi.
Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, invece, si ritiene che non possa invocarsi un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis.
Infatti, se i danni discendono dalla lesione, essi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando lo stesso sia in vita. Una volta sopravvenuto il decesso, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone comunque e necessariamente, l’esistenza di un subbietto di diritto.

Danno da morte immediata: è ammesso dalla Cassazione ?

In materia di danno tanatologico (cd. danno da morte immediata) si è recentemente espressa Cass. civ. Sez. III, Sent., 20/08/2015, n. 16993, che si riporta in versione integrale.
In essa, la Suprema Corte pare contraddire le precedenti posizioni negative, ammettendo a certe condizioni la configurabilità della risarcibilità di tale forma di danno.
Ecco il testo della decisione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –
Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente sentenza
sul ricorso 28993/2011 proposto da:
L.C.A. (OMISSIS), LA.CI.AG. (OMISSIS), L.C.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTEZEBIO 25, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ERRANTE, rappresentati e difesi dall’avvocato CADELO ENRICO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.C., C.G., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA SANT’ALBERTO MAGNO 9, presso lo studio dell’avvocato SEVERINI GAETANO, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO AGUGLIA giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
FONDIARIA SAI ASSICURAZIONI SPA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1347/2010 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 11/10/2010 R.G.N. 1085/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/04/2015 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’11/10/2010 la Corte d’Appello di Palermo ha respinto il gravame interposto dai sigg. La.Ci.Ag., A. e G. – quali eredi della congiunta sig. D. A., deceduta in corso di giudizio – in relazione alla pronunzia Trib. Palermo 6/9/2003, di parziale accoglimento della domanda da quest’ultima proposta nei confronti del sig. C.G., anch’egli deceduto in corso di causa, a titolo di risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di tardiva diagnosi, nella sua qualità di ginecologo, di carcinoma all’utero.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg. La.
C.A., A. e G., nella qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso i sigg. C.G. e C., quali eredi dei sigg. C.G. ed M.E., quest’ultima essendo deceduta in corso di giudizio.
L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 40 e 41 c.p. , in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3; nonchè “omessa ed insufficiente motivazione” su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5.
Con il 2 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1681 e 2054 c.c. , nonchè “omessa applicazione” degli artt. 2055, 1292 e 1294 c.c. , in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3.
Con il 3 motivo denunziano “omessa, insufficiente e contraddittoria” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente ed immotivatamente escluso la sussistenza “del nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della signora D.”, facendo proprie le conclusioni della CTU disposta in sede di gravame, senza motivare sulla preferenza a questa accordata rispetto alla CTU effettuata in 1 grado.
Lamentano che, ritenuto in colpa il ginecologo, la corte di merito ha quindi contraddittoriamente negato “il nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario” e la “sussistenza di tutti i pregiudizi sofferti dalla paziente e della loro diretta derivazione dalla condotta colpevole” del medesimo.
Si dolgono non essersi dalla corte di merito considerato che “le valutazioni tecniche rese dai consulenti nominati in secondo grado…
sono inidonee ad escludere che la tardività della diagnosi abbia inciso sulla possibilità della paziente di godere di una maggiore durata di sopravvivenza”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti p.q.r. nei termini di seguito indicati.
Come questa Corte ha avuto più volte modo di porre in rilievo, in accordo con quanto osservato anche in dottrina, il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell’attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicchè deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall’adempiere l’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività (cfr., con riferimento al professionista, ed in particolare allo specialista, Cass., 20/10/2014, n. 22222).
Atteso che la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata ( art. 1176 c.c. , comma 2), al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare (cfr.
Cass., 31/5/2006, n. 12995) e allo standard professionale della sua categoria, l’impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacchè il medesimo deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonchè del relativo grado di responsabilità (cfr. Cass., 20/10/2014, n. 22222; Cass., 9/10/2012, n. 17143).
Nell’adempimento delle obbligazioni (e dei comuni rapporti della vita di relazione) il soggetto deve osservare altresì gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l’insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale).
E’ pertanto tenuto a mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonchè di salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio -, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr., con riferimento a differenti fattispecie, Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 27/4/2011, n. 9404, e, da ultimo, Cass., 27/8/2014, n. 18304).
In tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, si è per altro verso nella giurisprudenza di legittimità precisato che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore (in ordine al quale cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826), che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522).
Danno risarcibile alla persona in conseguenza dell’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale è stato da questa Corte ravvisato anche in conseguenza della mera perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita” (v. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195).
Si è al riguardo precisato che in tale ipotesi il danno per il paziente consegue pure alla mera perdita della possibilità di scegliere, alla stregua delle conoscenze mediche del tempo,”cosa fare” per fruire della salute residua fino all’esito infausto, anche rinunziando all’intervento o alle cure per limitarsi a consapevolmente esplicare le proprie attitudini psico-fisiche in vista del e fino all’exitus (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846).
Orbene i suindicati principi sono stati dalla corte di merito in parte disattesi nell’impugnata sentenza.
E’ rimasto nella specie accertato che “il Dott. C. ebbe in cura la signora D. per un periodo di cinque mesi, dal settembre ’92 al febbraio ’93, durante il quale la paziente presentò episodi di perdite ematiche dai genitali, e che il medico.. effettuò controlli clinici per cinque volte (si tratta… delle visite del 29 settembre 1992, in cui venne controllata la spirale, dell’ottobre del 1992, in cui la spirale venne rimossa, del dicembre 1992, in cui venne eseguita un’ecografia, del gennaio 1993, in cui vennero prescritti antibiotici e utero tonici, e del febbraio 1993, in cui venne eseguita un’ecografia). Il 23 febbraio del 1993 la donna si ricoverò quindi all’Istituto Materno Infantile per tre giorni, ove le fu diagnosticato il carcinoma, mediante biopsia del canale cervicale, ciò da cui può desumersi, con certezza, che il carcinoma era già presente all’atto delle visite del Dott. C.”.
Orbene, dopo avere correttamente affermato che il comportamento nel caso dal medico mantenuto non è stato improntato alla dovuta diligenza, essendosi “con certezza” accertato che “il carcinoma era già presente all’atto delle visite del Dott. C.” e che l'”approccio diagnostico” del medesimo fu “insufficiente” atteso che quantomeno “in occasione del terzo controllo (dicembre ’92) o del quarto (gennaio 1993)” il “quadro patologico della D. andava approfondito… mediante l’effettuazione di esami diagnostici quali il pap test, la colposcopia e la biopsia della cervice uterina”, la corte di merito è invero pervenuta ad escludere la responsabilità del medesimo argomentando dal rilievo che “i consulenti hanno confermato che secondo l’id quod plerumque accidit, poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, con specifico riferimento alla forma tumorale, particolarmente maligna e aggressiva”, traendone la conferma dell'”insussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario”.
La corte di merito ha altresì escluso il risarcimento del c.d. danno da perdita di chance sofferto dalla D.A., “per il troncante rilievo che il controverso orientamento giurisprudenziale che ne ammette la configurabilità in materia di responsabilità medica, ritiene comunque che il danno da perdita di chance sia un’autonoma voce di danno emergente, con la conseguenza che la relativa domanda è diversa rispetto a quella avente ad oggetto il mancato raggiungimento del risultato sperato”.
Ha del pari negato il ristoro del danno “consistente nella sofferenza patita dalla D. prima di morire durante l’agonia (danno c.d.
tanatologico)”, in quanto “difetta, come già ampiamente detto, il nesso di causalità”.
Orbene, le suindicate ragioni e conclusioni si appalesano apodittiche ed erronee.
Vale al riguardo osservare che, quand’anche “la durata del ritardo diagnostico” sia da considerarsi non già di quattro mesi, come ritenuto dal giudice di prime cure, bensì quella “ridotta… a circa due mesi”, da essa ravvisata sussistere, la corte di merito non ha spiegato come mai alla mancata tempestiva individuazione da parte del C. della reale natura della malattia, che aveva invero già colpito la D. al momento della prima visita, quale forma tumorale “particolarmente maligna e aggressiva” non abbia assegnato alcuna rilevanza causale in relazione alla sopraggiunta morte, e pertanto anche sotto il segnalato profilo della possibilità di effettuazione di un intervento quantomeno di tipo palliativo, nonchè quello della suindicata perdita di una doppia chance.
Il rilievo secondo cui il morbo ha nel caso avuto “una progressione che avvenne con modalità particolarmente rapida ed inconsuetamente tumultuosa”, per cui “poco o nulla sarebbe comunque cambiato circa il decorso clinico”, e la conclusione di “insussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario” sono stati dal giudice del gravame invero, rispettivamente, formulato e trattalo senza invero considerare che anche in presenza di una situazione deponente per un prossimo ed ineluttabile exitus l’intervento medico può – come detto – essere comunque volto a consentire al paziente di poter eventualmente fruire di un intervento anche solo meramente palliativo idoneo, se non a risolvere il processo morboso o ad evitarne l’aggravamento, quantomeno ad alleviarne le sofferenze (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522).
A tale stregua, l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume allora rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita” (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195), intesa – come detto – quale possibilità di programmare (anche all’esito di una eventuale scelta di rinunzia all’intervento o alle cure: cfr. Cass., 16/10/2007, n. 21748) il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito (cfr.
Cass., 18/9/2008, n. 23846).
L’erroneità dell’assunto e della conclusione trattane dalla corte di merito si è quindi riverberata nel mancato riconoscimento di un ristoro dei danni subiti dalla D., e fatti valere iure hereditatis dagli odierni ricorrenti, avuto in particolare riguardo alla suindicata perdita di chance di sopravvivenza ovvero anche solo della possibilità di meglio prepararsi alla proprio fine vivendo consapevolmente, pur in tale contingenza, il proprio essere persona.
Nè può al riguardo sottacersi come tale erroneità trovi ulteriore sintomatica conferma nel riferimento operato dalla corte di merito al diverso concetto di “danno da perdita di chance” quale “autonoma voce di danno emergente” (rectius, lucro cessante: v., da ultimo, Cass., 12/6/2015, n. 12221), e pertanto di aspetto del danno patrimoniale, laddove questa Corte ha già avuto modo di precisare che “il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell’integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell’esistenza in vita” (così Cass., 18/9/2008, n. 23846).
Per altro verso, la suindicata erroneità si è ripercossa nella negazione del ristoro del c.d. danno tanatologico “consistente nella sofferenza patita dalla D. prima di morire durante l’agonia“.
Danno da questa Corte, anche a Sezioni Unite, indicato in termini di danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale o catastrofico (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26772; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26773), quale danno dalla vittima subito per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine, per la cui configurabilità assume rilievo il criterio dell’intensità della sofferenza provata (v. Cass., 8/4/2010, n. 8360; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 1/12/2003, n. 18305; Cass., 19/10/2007, n. 21976; Cass., 24/5/2001, n. 7075; Cass., 6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203. In tema di c.d. danno catastrofico v. già Cass., 2/4/2001, n. 4783), a prescindere dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima richiesto per la liquidazione del danno biologico terminale (in ordine al quale v. Cass., 28/8/2007, n. 18163; Cass., 16/5/2003, n. 7632; Cass., 1/2/2003, n. 18305; Cass., 16/6/2003, in 9620; Cass., 14/3/2003, n. 3728; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 10/2/1999, n. 1131; Cass., 29/9/1995, n. 10271).
Dell’impugnata sentenza – assorbiti ogni altro e diverso profilo e il 4 motivo – s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, la quale in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2015

In Italia il risarcimento del danno non patrimoniale per morte più elevato d’Europa

In caso di morte gli assicurati italiani (e una ampia platea di familiari) ricevono il risarcimento non patrimoniale assolutamente più elevato d’Europa.
E’ anche pur vero però che gli assicurati italiani corrispondono un premio medio di tariffa -al netto delle tasse e contributi – (per i settori autovetture, moto e ciclomotori) anche molto superiore alla media europea.
Queste sono le conclusioni cui è pervenuto l’Ivass (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni – ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico che opera per garantire la stabilità del mercato assicurativo e la tutela del consumatore)  nel Quaderno n. 1 dedicato al tema “Il Ramo r.c. auto: raffronto tra l’Italia e alcuni paesi della UE su premi, sinistri e sistemi risarcitori del danno”.

Liquidazione del danno non patrimoniale da morte – criteri.

La Corte di Cassazione con sentenza del 13-12-2012, n. 22909 ha statuito che
“In materia di liquidazione del danno non patrimoniale spettante in seguito al

DECESSO

di un congiunto, deve ritenersi erronea la quantificazione del risarcimento effettuata assumendo come base il danno non patrimoniale che sarebbe spettato alla vittima, con liquidazione di una somma variabile fra un terzo e la metà del danno biologico del 100% subito dalla vittima stessa, con determinazione, su tale somma, anche del danno morale riflesso.

Tale forma di liquidazione, invero, non tiene conto della pacifica esigenza di provvedere alla integrale riparazione del danno secondo un criterio di personalizzazione, che tenga conto delle condizioni personali e soggettive del danneggiato, della gravità delle conseguenze pregiudizievoli e della particolarità del caso concreto, al fine di valutare la effettiva entità del danno in termini il più possibile equilibrati e realistici. Pur se l’importo del risarcimento va quantificato in un’unica somma, inoltre, il Giudice deve dimostrare con adeguata motivazione (nella specie carente) di aver tenuto conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale abbia assunto nel caso concreto ed, in particolare, del danno insito nella perdita del rapporto parentale, oltre che delle sofferenze morali transeunti”.

Danno da morte – il danno biologico terminale e il danno “catastrofale.

La Cassazione civile con sentenza del 23 gennaio 2014, n. 1361 ha statuito che

“Il risarcimento del danno non patrimoniale da

PERDITA DELLA VITA

– bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile – è garantito dall’ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno “biologico terminale” e di danno “catastrofale”. Esso, pertanto, rileva “ex se”, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta “immediata” o “istantanea”, senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l’intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine”.