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Il fermo tecnico secondo la Cassazione del 2016
La Cassazione Civile, sez. III, con sentenza 26/09/2016 n° 18773 ha affrontato l’annoso problema del fermo tecnico del veicolo che abbia subito un incidente stradale.
Discostandosi dall’orientamento più risalente, il Collegio ha affermato di aderire e dare continuità al più recente orientamento, in via di consolidamento, secondo cui il danno da “fermo tecnico” del veicolo incidentato non è risarcibile in via equitativa – cui è possibile ricorrere solo ove sia certa l’esistenza dell’an – ove la parte non abbia provato di aver sostenuto di oneri e spese per procurarsi un veicolo sostitutivo, nè abbia fornito elementi (quali i costi assicurativi o la tassa di circolazione, sempre che la durata della riparazione non sia stata particolarmente breve, tale da rendere irrilevante l’entità di detti costi) idonei a determinare la misura del pregiudizio subito (tra le altre, Cass., 19 aprile 2013, n. 9626; Cass., 17 luglio 2015, n. 15089; Cass., 14 ottobre 2015, n. 20620).
Si tratta, infatti, di indirizzo consentaneo al principio per cui anche il danno da “fermo tecnico” non può considerarsi in re ipsa (come invece opinato dalla ricorrente), quale conseguenza automatica del sinistro e della indisponibilità del veicolo, ma deve, invece, essere allegato e dimostrato in ragione della effettiva perdita patita dal danneggiato, in consonanza con la norma di cui all’art. 1223 c.c. (richiamata dall’art. 2056 c.c.).
Sicchè, è corretta la decisione del giudice di appello che ha escluso la risarcibilità di detto danno in ragione della rilevata rapida attuazione delle opere di riparazione del veicolo (4 giorni), senza che l’attrice avesse neppure allegato (prima ancora che dimostrato) di aver subito “un danno materiale emergente ulteriore a quello normalmente discendente dal bisogno di disporre le opere” anzidette.
In estrema sintesi, per ottenere il risarcimento del fermo tecnico è opportuno presentare una fattura per noleggio di un veicolo sostitutivo.
Con l’unico rischio di non trovare accoglimento alla domanda, se il periodo delle riparazioni è stato molto breve.
Il danno non patrimoniale, morale ed esistenziale nel 2015
Si riportano le sentenze più interessanti emesse dalla Corte di Cassazione nell’anno 2015 in tema di danno non patrimoniale, danno morale ed esistenziale.
Cass. civ. Sez. III, 17-12-2015, n. 25351 (rv. 638116)
Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, costituisce indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale – non altrimenti specificato – e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita, e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita, altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ma unitariamente ristorato.
Cass. civ. Sez. III, 09-06-2015, n. 11851 (rv. 635701)
Nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell’ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all’art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall’art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria.
Cass. civ. Sez. III, 20-02-2015, n. 3387
La liquidazione unitaria del danno da lutto sotto i profili morale ed esistenziale, pur concettualmente distinti, ma sempre fortemente intrecciati, risulta coerente con l’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie e con l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26792) in punto di unitarietà del danno non patrimoniale.
Cass. civ. Sez. III, 20-08-2015, n. 16992
La categoria generale del danno non patrimoniale, che attiene alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e si articola in una pluralità di voci, con funzione descrittiva, quali il danno morale, quello biologico e il danno esistenziale (o da perdita del rapporto parentale nel caso di morte del congiunto).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-01-2015, n. 777 (rv. 634051)
Il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 cod. civ., può essere desunto in forza dell’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell’infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell’infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell’infortunato avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività.
Cass. civ. Sez. III, 10-11-2015, n. 22885 (rv. 637822)
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale con criterio equitativo, il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata.
Cass. civ. Sez. III, 19-10-2015, n. 21087 (rv. 637477)
È viziata la motivazione della sentenza che, nell’effettuare la liquidazione equitativa del danno morale, non si riferisca alla gravità del fatto, alle condizioni soggettive della persona, all’entità della sofferenza e del turbamento d’animo, in quanto la stessa si pone al di fuori del fondamento e dei limiti di cui all’art. 1226 c.c. (nella specie, relativa al danno morale patito dai congiunti della vittima di un illecito mortale, riducendo il “quantum” del risarcimento ritenendolo semplicemente eccessivo), rendendo impossibile il controllo dell'”iter” logico seguito dal giudice di merito nella relativa quantificazione.
Cass. civ. Sez. III, 19-10-2015, n. 21084 (rv. 637744)
La morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione unitaria. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale il giudice d’appello – in riforma della sentenza di primo grado – aveva aumentato la liquidazione del danno non patrimoniale patito dai congiunti della vittima di un sinistro stradale, proprio in ragione della gravità degli effetti prodotti, sulla loro psiche, dalla morte del familiare).
Cass. civ. Sez. III, 15-10-2015, n. 20895
Nella liquidazione del danno non patrimoniale, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, non è consentita la liquidazione equitativa c.d. pura, che non faccia riferimento a criteri obiettivi di liquidazione del danno che tengano conto ed elaborino le differenti variabili del caso concreto, allo scopo di rendere verificabile a posteriori l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, e di permettere di verificare se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo. Per garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, tra i criteri in astratto adottabili deve ritenersi preferibile il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., salvo che non sussistano in concreto circostante idonee a giustificarne l’abbandono.
Cass. civ. Sez. III, 29-09-2015, n. 19211
P.R. c. (Omissis) Assicurazioni S.p.A. e altri
DANNI IN MATERIA CIVILE E PENALE Danno non patrimoniale Liquidazione e valutazione equitativa
I parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto. Di talché, è incongrua la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalla predette Tabelle di Milano consente di pervenire.
Cass. civ. Sez. III, 20-05-2015, n. 10263
Va cassata la sentenza che, per quantificare il danno morale sofferto dal fratello della persona deceduta all’esito di un sinistro stradale, abbia applicato le tabelle in uso presso il distretto ove è ubicato l’ufficio giudiziario, anziché quelle elaborate dal Tribunale di Milano.
Cass. civ. Sez. III, 20-05-2015, n. 10263
In materia di risarcimento del danno non patrimoniale, le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all’art. 1226 c.c. e di addivenire ad una quantificazione del danno rispondente ad equità, nell’effettiva esplicazione di poteri discrezionali, e non già rispondenti ad arbitrio (quand’anche “equo”). Mentre in tema di responsabilità civile da circolazione stradale, il D.Lgs. n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la liquidazione delle invalidità c.d. Micropermanenti (fino a 9 punti), in caso di assenza di tabelle normativamente determinate, come ad esempio per le c.d. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per l’affermazione che tali tabelle costituiscono il c.d. “notorio locale” v. in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell’avvalersene, il giudice proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972). Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, esse vanno ritenute valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Cass. civ. Sez. III, 14-10-2015, n. 20619
Il riconoscimento del pregiudizio morale si fonda sull’accertamento di presupposti di fatto diversi rispetto a quelli che sono alla base del riconoscimento del danno biologico, con la conseguenza che, proposta impugnazione soltanto in relazione al danno biologico, essa non si estende a quello morale. A stabilirlo è la Corte di cassazione con Sent. n. 20619 del 2015 pronunciandoci su un caso di risarcimento del danno relativo ad un sinistro stradale mortale.
Cass. civ. Sez. III, 20-08-2015, n. 16992
Non essendo mai ristorabile nel suo preciso ammontare, il danno non patrimoniale necessita di una valutazione equitativa, che deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto e ispirarsi a criteri idonei a consentire la personalizzazione del danno, al fine di addivenire ad una liquidazione equa, cioè congrua, adeguata e proporzionata.
Cass. civ. Sez. III, 20-08-2015, n. 16992
La liquidazione del danno non patrimoniale deve tendere all’integralità del ristoro, sì che non deve essere simbolica o irrisoria, deve comprendere tutte le voci di cui esso si compendia e deve evitare duplicazioni risarcitorie, che si configurano allorché la stessa voce viene computata più volte sulla scorta di diverse, meramente formali, denominazioni.
Cass. civ. Sez. III, 20-08-2015, n. 16992 (rv. 636308)
Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, nella quale, pur dandosi atto che, dalla vicenda della tragica morte del giovane figlio, la madre ne era uscita distrutta nel corpo, trascinando la propria successiva esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo, quasi ossessivo, del defunto, aveva, poi, sulla base di tali circostanze, riconosciuto alla medesima il solo danno morale, negandole, però, quello da perdita del rapporto parentale).
Cass. civ. Sez. III, 13-08-2015, n. 16788
Posto che l’unitarietà del danno non patrimoniale è un concetto giuridico funzionale a presidiare il divieto di duplicazioni risarcitorie e si discosta dal polimorfismo con cui il danno può manifestarsi, che è questione di fatto, come non è consentito liquidare due volte il medesimo danno non patrimoniale chiamandolo con nomi diversi, allo stesso modo non è consentito negare il risarcimento di due danni diversi solo perché li si chiami con nomi identici.
Cass. civ. Sez. Unite, 22-07-2015, n. 15350 (rv. 635985)
In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.
Cass. civ. Sez. Unite, 22-12-2015, n. 25767
Benché sussista l’astratta titolarità attiva dell’individuo, quando pur l’illecito sia commesso prima della sua nascita, non è configurabile nel nostro ordinamento il diritto del nascituro a richiedere al medico il risarcimento del danno per la nascita malformata, poiché non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.
Cass. civ. Sez. III, 19-06-2015, n. 12717 (rv. 635949)
In materia di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, non è adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale.
Cass. civ. Sez. III, 19-06-2015, n. 12717
Il giudice del merito che procede alla liquidazione, attraverso le relative tabelle, del danno non patrimoniale per l’ipotesi di un feto nato morto, può, in ipotesi, assimilare tale vicenda a quella del decesso di un figlio; tuttavia, deve considerare che per il figlio nato morto è ipotizzabile soltanto il venir meno di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore-figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita), ma non anche di una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento all’interno della forbice di riferimento.
Cass. civ. Sez. III, 19-06-2015, n. 12722
Per il riconoscimento del c.d. danno catastrofale, è necessario che la vittima, nell’apprezzabile lasso di tempo che ha preceduto la morte, si sia mantenuta lucida ed abbia così potuto preconizzarsi l’incombenza dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno. (Nella specie la Cassazione ha escluso la risarcibilità del danno, atteso che il tempo di sopravvivenza della vittima era stato di poco più di un’ora e che non vi era prova della sussistenza di uno stato di lucidità della vittima stessa).
Cass. civ. Sez. III, 24-03-2015, n. 5866
Ai fini della configurabilità del diritto al risarcimento del danno catastrofale, ovvero dello sconvolgimento psichico patito da chi si trovi a cogliere, anche per un periodo di breve durata, il momento terminale della propria esistenza, assume rilievo non tanto la durata, quanto la effettiva esistenza di un tale pregiudizio. In tal senso, deve ritenersi non condivisibile la pronuncia del Giudice di merito che pur riconoscendo lo stato vigile della vittima nei momenti conseguenti al sinistro, escluda tuttavia la lucidità della stessa, in quanto non in grado di stabilire un contatto con i sanitari, soprattutto in caso di reciprocità di tale difficoltà, dovuta alla circostanza che la vittima non comprenda e non parli la lingua italiana (come nel caso concreto, ove nemmeno può attribuirsi rilievo, al fine di escludere la configurabilità del pregiudizio in parola, alla circostanza che la vittima ripeteva sempre la stessa frase, poiché, lungi dall’escludere lo stato di coscienza, tale ripetitività, poteva piuttosto costituire espressione di uno stato di drammatico spavento, del tutto compatibile con la condizione di chi senta di trovarsi in pericolo di vita).
Cass. civ. Sez. III, 12-06-2015, n. 12211 (rv. 635625)
In tema di danni alla persona, l’invalidità di gravità tale (nella specie, del 25 per cento) da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, integra non già lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell’aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di “chance”, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e piuttosto derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 cod. civ.
Cass. civ. Sez. III, 08-05-2015, n. 9320 (rv. 635319)
In materia di responsabilità civile, il principio della “omnicomprensività” della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l’impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di merito aveva liquidato unitariamente il danno non patrimoniale patito dai familiari delle vittima di un sinistro stradale, non attribuendo autonomo rilievo al danno da perdita del rapporto parentale e a quello alla salute psichica dagli stessi pure subito in conseguenza della morte del proprio congiunto).
Cass. civ. Sez. III, 26-03-2015, n. 6096
Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito lesioni personali a causa del fatto illecito costituente reato è riconosciuta la possibilità di conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima.
Il danno non patrimoniale, morale ed esistenziale nel 2016
In tema di danno non patrimoniale, definizione entro il cui ambito sono stati fatti confluire il cd. danno biologico, il danno morale in tutte le sue componenti (incluso il danno esistenziale), si segnalano le seguenti sentenze o ordinanze della Suprema Corte intervenute nell’anno 2016.
Cass. civ. Sez. III, 23-02-2016, n. 3505
E’ ammissibile la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata, in applicazione del principio della relativa necessaria personalizzazione, con il superamento dei limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle Tabelle predisposte dal Tribunale di Milano. Tale deroga, tuttavia, può avvenire solo quando la specifica vicenda presa in considerazione non rientri nell’ambito dell’ordinario e pur differenziato atteggiarsi delle varie possibili situazioni in astratto idonee ad orientare la liquidazione stessa tra il minimo ed il massimo del parametro tabellare, ma se ne discosti, per la presenza di circostanze di cui il parametro stesso non possa aver tenuto conto. Di tali circostanze va dato adeguatamente conto in motivazione. (Nella specie la motivazione della gravata pronuncia risulta sotto tale aspetto del tutto insufficiente, poiché il giudice del merito, dopo aver dichiarato di voler applicare la tabelle milanesi del 2011, liquida un importo inferiore al minimo ivi previsto, senza indicare motivi idonei a giustificare, né in astratto, né in concreto, tale deroga e senza espressamente chiarire l’intenzione di derogare il suddetto minimo).
Cass. civ. Sez. III, 19-02-2016, n. 3260
Ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l’utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008, secondo cui il danno morale soggettivo non può configurarsi come conseguenza immediata e diretta della durata e dell’intensità della lesione psicofisica, con la conseguenza che, se non scompare del tutto, postula una dimostrazione e motivazione specifica, non implica che, accertato il primo (danno biologico), il secondo non abbia bisogno di alcun accertamento, perché se così fosse si duplicherebbe il risarcimento degli stessi pregiudizi. Viceversa, il metodo suddetto va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l’accertamento con metodo presuntivo, attenendo la sofferenza morale ad un bene immateriale, dell’esistenza del pregiudizio subito, mediante l’individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo sulla base della necessaria allegazione del tipo di pregiudizio e dei fatti da cui lo stesso emerge da parte di chi ne chiede il ristoro.
Cass. civ. Sez. III, 13-01-2016, n. 336
Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria del “danno esistenziale“, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona.
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 11-01-2016, n. 222
Il danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 15 del Codice della privacy (D.Lgs. n. 196 del 2003) non si sottrae alla verifica della “gravità” della lesione e della serietà del danno, atteso che anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost.. Ne deriva che determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni di cui all’art. 11 del predetto Codice ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva.
Il mancato guadagno futuro al macroleso va risarcito per la perdita della capacità produttiva.
La Cassazione con sentenza 22 settembre 2015, n. 18611 ha statuito che risulta violato il principio del risarcimento integrale del danno patrimoniale del macroleso allorché sia stato dedotto e provato il pregiudizio al diritto al lavoro, costituzionalmente garantito, di soggetto che propone un’attività imprenditoriale lecita che esigeva la integrità psicofisica.
Infatti è irrilevante che l’impedimento provocato dal fatto lesivo sia riferibile ad un progetto di attività lavorativa, se il fatto dannoso nella sua entità impediva ora e per sempre qualsiasi possibile altra alternativa di lavoro.
La Suprema Corte motiva la propria decisione spiegando che la sentenza impugnata “nega il risarcimento del danno patrimoniale futuro, determinato dalla perdita totale della capacità produttiva, come medicalmente accertata e non controversa, sul rilievo che il trentaduenne P., che era in procinto di ottenere il brevetto di istruttore di volo per avviare una scuola di volo ed attività commerciale accessoria, era in realtà un disoccupato, e che la sua distruzione fisica e della validità lavorativa non era produttiva di un danno futuro quantificabile”.
E ancora che “LA CORTE TRIESTINA nega il risarcimento del danno patrimoniale vuoi come danno emergente vuoi come lucro cessante, e non considera che il pregiudizio attiene alla capacità produttiva di un giovane integro e nel pieno delle sue forze fisiche e psichiche”.
Sul punto la Corte richiama per utili riferimenti CASS Su 2009 n.1850, CASS.12 GIUGNO 2015 N.12211 E 1 FEBBRAIO 2012 B.1439.
Il fermo tecnico non va risarcito in automatico. Persiste in Cassazione il contrasto.
La Suprema Corte si è soffermata ancora una volta sul concetto di
fermo tecnico
del veicolo in riparazione e sulla risarcibilità del danno asseritamente derivante dal suo mancato utilizzo.
Secondo Cass. civ. Sez. III, Sent., 14/10/2015, n. 20620 “Il danno consistente nel costo sostenuto per riparare un autoveicolo è ben diverso da quello patito per non avere potuto disporre del mezzo durante il tempo necessario per le riparazioni, ovvero durante il tempo in cui il veicolo fu tenuto a disposizione dell’assicuratore del responsabile, per le necessarie verifiche.
Il danno in esame non è in re ipsa e non può essere ritenuto sussistente per il solo fatto che un veicolo non abbia circolato perchè in riparazione.
Deve pertanto concludersi nel senso che:
(a) l’indisponibilità d’un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni è un danno che deve essere allegato e dimostrato;
(b) la prova del danno non può consistere nella dimostrazione della mera indisponibilità del veicolo, ma deve consistere nella dimostrazione della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero nella dimostrazione della perdita subita per avere dovuto rinunciare ai proventi ricavati dall’uso del mezzo”.
Nell’articolata motivazione, la Suprema Corte ha esaminato gli opposti orientamenti che nel corso del tempo si erano formati sul tema.
Si riporta la parte della sentenza, in quanto di sicura utilità per gli addetti ai lavori.
“7.4. Da oltre quarant’anni (dal 1972, per l’esattezza) nella giurisprudenza di questa Corte si registra un contrasto irrisolto sulla prova del c.d. danno da fermo tecnico: vale a dire del pregiudizio patito dal proprietario di un veicolo per non averne potuto disporre durante il tempo necessario alle riparazioni.
7.4.1. Secondo un primo e più antico orientamento, il danno da fermo tecnico può essere liquidato “anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato dei veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato”.
Questo orientamento si fonda sull’assunto secondo cui il proprietario di un veicolo a motore, durante il tempo delle riparazioni, sopporta necessariamente una perdita economica pari:
(a) alla tassa di circolazione;
(b) al premio di assicurazione;
(c) al deprezzamento del veicolo.
La sentenza “capostipite” in tal senso è rappresentata da Sez. 3, Sentenza n. 2109 del 23/06/1972, Rv. 359341; in seguito, nello stesso senso, si sono pronunciate Sez. 3, Sentenza n. 13215 del 26/6/2015, non massimata; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22687 del 04/10/2013, Rv.
629051; Sez. 3, Sentenza n. 9626 del 19/04/2013, Rv. 626034; Sez. 3, Sentenza n. 6907 del 8.5.2012, non massimata; Sez. 3, Sentenza n. 23916 del 09/11/2006, Rv. 593159: Sez. 3, Sentenza n. 17963 del 14/12/2002, Rv. 559270; Sez. 3, Sentenza n. 12908 del 13/07/2004, Rv.
574496; Sez. 3, Sentenza n. 3234 del 03/04/1987, Rv. 452307; Sez. 3, Sentenza n. 4009 del 28/08/1978, Rv. 393612; Sez. 3, Sentenza n. 1737 del 05/05/1975, Rv. 375375.
7.4.2. Per un diverso e più recente orientamento, invece, il danno da fermo tecnico non può considerarsi sussistente in re ipsa, quale conseguenza automatica dell’incidente. Esso può essere risarcito soltanto al cospetto “di esplicita prova” non solo del fatto che il mezzo non potesse essere utilizzato, ma anche del fatto che il proprietario avesse davvero necessità di servirsene, e sia perciò dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi, ovvero abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo.
Questo orientamento, inaugurato da Sez. 3, Sentenza n. 970 del 07/02/1996, Rv. 495753, è stato in seguito ribadito da Sez. 3, Sentenza n. 12820 del 19/11/1999, Rv. 531285 e da Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15089 del 17.7.2015, non massimata.
7.4.3. Ritiene questa Corte che il primo di tali orientamenti non possa essere condiviso, perchè tutti e sei gli assunti su cui si fonda sono erronei.
7.4.4. E’ erronea, in primo luogo, l’affermazione secondo cui il danno causato dall’indisponibilità d’un veicolo sia in re ipsa: nel nostro ordinamento infatti non esistono danni in rebus ipsis, e nessun risarcimento è mai esigibile se dalla lesione del diritto o dell’interesse non sia derivato un concreto pregiudizio (ex multis, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 24474 del 18/11/2014, Rv. 633450; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 18812 del 05/09/2014, Rv. 632941; Sez. 1, Sentenza n. 23194 del 11/10/2013, Rv. 628570; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013, Rv. 627750).
Il danno in senso giuridico, infatti, non può dirsi esistente sol perchè sia stato vulnerato un diritto. La lesione del diritto è il presupposto del danno, non il danno in senso giuridico. Quest’ultimo vi sarà soltanto se dalla lesione del diritto sia altresì derivata una perdita, patrimoniale o non patrimoniale che sia.
7.4.5. E’ erronea, in secondo luogo, l’affermazione secondo cui una volta dimostrato che il veicolo sia stato inutilizzabile per un certo numero di giorni, il danno può essere per ciò liquidato “in via equitativa” ex art. 1226 c.c..
Una simile affermazione costituisce anzi una falsa applicazione del precetto di cui all’art. 1226 c.c.. Tale norma, infatti, non può costituire un commodus discessus per l’attore che non provi l’esistenza del danno. La liquidazione equitativa è consentita quando il danno sia certo nella sua esistenza, ma indimostrabile nel suo ammontare, mentre l’orientamento qui contestato ricorre all’art. 1226 c.c. , per liquidare un danno che è addirittura incerto nella sua stessa esistenza.
7.4.5. E’ erronea, in terzo luogo, l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno, pari alla spesa sostenuta dal proprietario per la c.d. “tassa di circolazione”.
La tassa di circolazione, già prevista dal D.P.R. 5 febbraio 1953, n. 39 , è stata trasformata in tassa sulla proprietà dal D.L. 30 dicembre 1982, n. 953, art. 5, comma 29, (convertito nella L. 28 febbraio 1983, n. 53 ).
La norma appena ricordata stabilisce che la tassa è dovuta per il solo fatto dell’iscrizione del veicolo nel pubblico registro automobilistico, ed a prescindere dalla sua circolazione.
Non è quindi corretto sostenere che la tassa sia stata “pagata invano” nel caso di sosta forzosa del veicolo, perchè il fatto costitutivo dell’obbligazione tributaria è la proprietà del veicolo, non la sua circolazione.
7.4.6. E’ erronea, in quarto luogo, l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno, pari al premio assicurativo “inutilmente pagato”.
Tale affermazione è doppiamente erronea.
In primo luogo, è erronea perchè il rischio che il veicolo possa causare danni a terzi non viene meno durante il periodo della riparazione (ad es., nel caso di incendio o di danni causati a terzi durante il collaudo), e dunque il premio non è “inutilmente pagato”.
In secondo luogo è erronea perchè durante il periodo della riparazione il proprietario potrebbe chiedere all’assicuratore la sospensione dell’efficacia della polizza, sicchè, ove non si avvalga di questa semplice precauzione, il pagamento del premio non potrebbe costituire un danno risarcibile, perchè dovuto a negligenza del danneggiato ( art. 1227 c.c.).
7.4.7. E’ erronea, in quinto luogo, l’affermazione secondo cui il danno da fermo tecnico sarebbe in re ipsa a causa del “deprezzamento del veicolo”.
In primo luogo, infatti, il deprezzamento è causato dalla necessità della riparazione, non dalla durata di questa.
In secondo luogo, il deprezzamento d’un veicolo non è una conseguenza necessaria del fermo tecnico, ma un danno eventuale e da accertare caso per caso. Così, ad esempio, la riparazione d’un veicolo obsoleto e malandato potrebbe addirittura fargli acquistare un valore superiore a quello che aveva prima del sinistro.
7.4.7. E’ inaccettabilmente erronea, infine, l’affermazione secondo cui l’indisponibilità del veicolo durante il tempo delle riparazioni costituirebbe un danno patrimoniale “a prescindere dall’uso a cui esso era destinato”.
Non potere utilizzare un veicolo per svago o diporto non costituisce una perdita patrimoniale, ma un pregiudizio d’affezione: come tale non risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. , mancando la lesione d’un interesse della persona costituzionalmente garantito”.
Il danno morale è autonomo rispetto a quello biologico.
Tabelle di Milano: il giudice deve motivarne il mancato utilizzo.
La Corte di Cassazione, Sez. III, con sentenza n. 19211 del 29 settembre 2015, ha precisato che “Deve ritenersi in tema di lesioni gravi conseguenti a sinistri stradali che i parametri delle Tabelle di Milano, che hanno vocazione nazionale, sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire”.
Danno da morte (tanatologico): le Sezioni Unite del 2015 ne escludono la risarcibilità.
Danno da morte immediata: è ammesso dalla Cassazione ?
In materia di danno tanatologico (cd. danno da morte immediata) si è recentemente espressa Cass. civ. Sez. III, Sent., 20/08/2015, n. 16993, che si riporta in versione integrale.
In essa, la Suprema Corte pare contraddire le precedenti posizioni negative, ammettendo a certe condizioni la configurabilità della risarcibilità di tale forma di danno.
Ecco il testo della decisione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –
Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente sentenza
sul ricorso 28993/2011 proposto da:
L.C.A. (OMISSIS), LA.CI.AG. (OMISSIS), L.C.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTEZEBIO 25, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ERRANTE, rappresentati e difesi dall’avvocato CADELO ENRICO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.C., C.G., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA SANT’ALBERTO MAGNO 9, presso lo studio dell’avvocato SEVERINI GAETANO, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO AGUGLIA giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
FONDIARIA SAI ASSICURAZIONI SPA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1347/2010 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 11/10/2010 R.G.N. 1085/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/04/2015 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’11/10/2010 la Corte d’Appello di Palermo ha respinto il gravame interposto dai sigg. La.Ci.Ag., A. e G. – quali eredi della congiunta sig. D. A., deceduta in corso di giudizio – in relazione alla pronunzia Trib. Palermo 6/9/2003, di parziale accoglimento della domanda da quest’ultima proposta nei confronti del sig. C.G., anch’egli deceduto in corso di causa, a titolo di risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di tardiva diagnosi, nella sua qualità di ginecologo, di carcinoma all’utero.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg. La.
C.A., A. e G., nella qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso i sigg. C.G. e C., quali eredi dei sigg. C.G. ed M.E., quest’ultima essendo deceduta in corso di giudizio.
L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 40 e 41 c.p. , in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3; nonchè “omessa ed insufficiente motivazione” su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5.
Con il 2 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1681 e 2054 c.c. , nonchè “omessa applicazione” degli artt. 2055, 1292 e 1294 c.c. , in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3.
Con il 3 motivo denunziano “omessa, insufficiente e contraddittoria” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente ed immotivatamente escluso la sussistenza “del nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della signora D.”, facendo proprie le conclusioni della CTU disposta in sede di gravame, senza motivare sulla preferenza a questa accordata rispetto alla CTU effettuata in 1 grado.
Lamentano che, ritenuto in colpa il ginecologo, la corte di merito ha quindi contraddittoriamente negato “il nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario” e la “sussistenza di tutti i pregiudizi sofferti dalla paziente e della loro diretta derivazione dalla condotta colpevole” del medesimo.
Si dolgono non essersi dalla corte di merito considerato che “le valutazioni tecniche rese dai consulenti nominati in secondo grado…
sono inidonee ad escludere che la tardività della diagnosi abbia inciso sulla possibilità della paziente di godere di una maggiore durata di sopravvivenza”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti p.q.r. nei termini di seguito indicati.
Come questa Corte ha avuto più volte modo di porre in rilievo, in accordo con quanto osservato anche in dottrina, il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell’attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicchè deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall’adempiere l’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività (cfr., con riferimento al professionista, ed in particolare allo specialista, Cass., 20/10/2014, n. 22222).
Atteso che la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata ( art. 1176 c.c. , comma 2), al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare (cfr.
Cass., 31/5/2006, n. 12995) e allo standard professionale della sua categoria, l’impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacchè il medesimo deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonchè del relativo grado di responsabilità (cfr. Cass., 20/10/2014, n. 22222; Cass., 9/10/2012, n. 17143).
Nell’adempimento delle obbligazioni (e dei comuni rapporti della vita di relazione) il soggetto deve osservare altresì gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l’insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale).
E’ pertanto tenuto a mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonchè di salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio -, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr., con riferimento a differenti fattispecie, Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 27/4/2011, n. 9404, e, da ultimo, Cass., 27/8/2014, n. 18304).
In tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, si è per altro verso nella giurisprudenza di legittimità precisato che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore (in ordine al quale cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826), che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522).
Danno risarcibile alla persona in conseguenza dell’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale è stato da questa Corte ravvisato anche in conseguenza della mera perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita” (v. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195).
Si è al riguardo precisato che in tale ipotesi il danno per il paziente consegue pure alla mera perdita della possibilità di scegliere, alla stregua delle conoscenze mediche del tempo,”cosa fare” per fruire della salute residua fino all’esito infausto, anche rinunziando all’intervento o alle cure per limitarsi a consapevolmente esplicare le proprie attitudini psico-fisiche in vista del e fino all’exitus (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846).
Orbene i suindicati principi sono stati dalla corte di merito in parte disattesi nell’impugnata sentenza.
E’ rimasto nella specie accertato che “il Dott. C. ebbe in cura la signora D. per un periodo di cinque mesi, dal settembre ’92 al febbraio ’93, durante il quale la paziente presentò episodi di perdite ematiche dai genitali, e che il medico.. effettuò controlli clinici per cinque volte (si tratta… delle visite del 29 settembre 1992, in cui venne controllata la spirale, dell’ottobre del 1992, in cui la spirale venne rimossa, del dicembre 1992, in cui venne eseguita un’ecografia, del gennaio 1993, in cui vennero prescritti antibiotici e utero tonici, e del febbraio 1993, in cui venne eseguita un’ecografia). Il 23 febbraio del 1993 la donna si ricoverò quindi all’Istituto Materno Infantile per tre giorni, ove le fu diagnosticato il carcinoma, mediante biopsia del canale cervicale, ciò da cui può desumersi, con certezza, che il carcinoma era già presente all’atto delle visite del Dott. C.”.
Orbene, dopo avere correttamente affermato che il comportamento nel caso dal medico mantenuto non è stato improntato alla dovuta diligenza, essendosi “con certezza” accertato che “il carcinoma era già presente all’atto delle visite del Dott. C.” e che l'”approccio diagnostico” del medesimo fu “insufficiente” atteso che quantomeno “in occasione del terzo controllo (dicembre ’92) o del quarto (gennaio 1993)” il “quadro patologico della D. andava approfondito… mediante l’effettuazione di esami diagnostici quali il pap test, la colposcopia e la biopsia della cervice uterina”, la corte di merito è invero pervenuta ad escludere la responsabilità del medesimo argomentando dal rilievo che “i consulenti hanno confermato che secondo l’id quod plerumque accidit, poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, con specifico riferimento alla forma tumorale, particolarmente maligna e aggressiva”, traendone la conferma dell'”insussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario”.
La corte di merito ha altresì escluso il risarcimento del c.d. danno da perdita di chance sofferto dalla D.A., “per il troncante rilievo che il controverso orientamento giurisprudenziale che ne ammette la configurabilità in materia di responsabilità medica, ritiene comunque che il danno da perdita di chance sia un’autonoma voce di danno emergente, con la conseguenza che la relativa domanda è diversa rispetto a quella avente ad oggetto il mancato raggiungimento del risultato sperato”.
Ha del pari negato il ristoro del danno “consistente nella sofferenza patita dalla D. prima di morire durante l’agonia (danno c.d.
tanatologico)”, in quanto “difetta, come già ampiamente detto, il nesso di causalità”.
Orbene, le suindicate ragioni e conclusioni si appalesano apodittiche ed erronee.
Vale al riguardo osservare che, quand’anche “la durata del ritardo diagnostico” sia da considerarsi non già di quattro mesi, come ritenuto dal giudice di prime cure, bensì quella “ridotta… a circa due mesi”, da essa ravvisata sussistere, la corte di merito non ha spiegato come mai alla mancata tempestiva individuazione da parte del C. della reale natura della malattia, che aveva invero già colpito la D. al momento della prima visita, quale forma tumorale “particolarmente maligna e aggressiva” non abbia assegnato alcuna rilevanza causale in relazione alla sopraggiunta morte, e pertanto anche sotto il segnalato profilo della possibilità di effettuazione di un intervento quantomeno di tipo palliativo, nonchè quello della suindicata perdita di una doppia chance.
Il rilievo secondo cui il morbo ha nel caso avuto “una progressione che avvenne con modalità particolarmente rapida ed inconsuetamente tumultuosa”, per cui “poco o nulla sarebbe comunque cambiato circa il decorso clinico”, e la conclusione di “insussistenza del nesso causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario” sono stati dal giudice del gravame invero, rispettivamente, formulato e trattalo senza invero considerare che anche in presenza di una situazione deponente per un prossimo ed ineluttabile exitus l’intervento medico può – come detto – essere comunque volto a consentire al paziente di poter eventualmente fruire di un intervento anche solo meramente palliativo idoneo, se non a risolvere il processo morboso o ad evitarne l’aggravamento, quantomeno ad alleviarne le sofferenze (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522).
A tale stregua, l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume allora rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita” (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195), intesa – come detto – quale possibilità di programmare (anche all’esito di una eventuale scelta di rinunzia all’intervento o alle cure: cfr. Cass., 16/10/2007, n. 21748) il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito (cfr.
Cass., 18/9/2008, n. 23846).
L’erroneità dell’assunto e della conclusione trattane dalla corte di merito si è quindi riverberata nel mancato riconoscimento di un ristoro dei danni subiti dalla D., e fatti valere iure hereditatis dagli odierni ricorrenti, avuto in particolare riguardo alla suindicata perdita di chance di sopravvivenza ovvero anche solo della possibilità di meglio prepararsi alla proprio fine vivendo consapevolmente, pur in tale contingenza, il proprio essere persona.
Nè può al riguardo sottacersi come tale erroneità trovi ulteriore sintomatica conferma nel riferimento operato dalla corte di merito al diverso concetto di “danno da perdita di chance” quale “autonoma voce di danno emergente” (rectius, lucro cessante: v., da ultimo, Cass., 12/6/2015, n. 12221), e pertanto di aspetto del danno patrimoniale, laddove questa Corte ha già avuto modo di precisare che “il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell’integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell’esistenza in vita” (così Cass., 18/9/2008, n. 23846).
Per altro verso, la suindicata erroneità si è ripercossa nella negazione del ristoro del c.d. danno tanatologico “consistente nella sofferenza patita dalla D. prima di morire durante l’agonia“.
Danno da questa Corte, anche a Sezioni Unite, indicato in termini di danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale o catastrofico (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26772; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26773), quale danno dalla vittima subito per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine, per la cui configurabilità assume rilievo il criterio dell’intensità della sofferenza provata (v. Cass., 8/4/2010, n. 8360; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 1/12/2003, n. 18305; Cass., 19/10/2007, n. 21976; Cass., 24/5/2001, n. 7075; Cass., 6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203. In tema di c.d. danno catastrofico v. già Cass., 2/4/2001, n. 4783), a prescindere dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima richiesto per la liquidazione del danno biologico terminale (in ordine al quale v. Cass., 28/8/2007, n. 18163; Cass., 16/5/2003, n. 7632; Cass., 1/2/2003, n. 18305; Cass., 16/6/2003, in 9620; Cass., 14/3/2003, n. 3728; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 10/2/1999, n. 1131; Cass., 29/9/1995, n. 10271).
Dell’impugnata sentenza – assorbiti ogni altro e diverso profilo e il 4 motivo – s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, la quale in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2015