Morte da incidente stradale: quale risarcimento danni ?

Morte da incidente stradale e risarcimento danni
Incidente stradale mortale

Morte da incidente stradale e risarcimento danni

La morte di una persona in un incidente stradale comporta per i suoi parenti un danno che viene definito “parentale”.

La privazione della persona che è inserita in un contesto familiare, produce un danno sia patrimoniale (mancato guadagno per il venire meno del suo apporto economico), sia non patrimoniale (cd. danno morale, consistente nella sofferenza psicologica prodotta dalla rottura del legame sentimentale).

La morte di un genitore, di un figlio, del marito o della moglie, senz’altro provocano una sofferenza intima di notevole intensità, tale da interferire con il normale svolgersi della vita quotidiana del superstite che lo subisce (cd. danneggiato).

Tale forma di danno viene tradizionalmente definita come danno morale.

A questo tipo di sofferenza, molte volte si aggiunge un danno economico diretto, quando il defunto era produttore di reddito da lavoro (autonomo o dipendente) che devolveva alla famiglia, o indiretto, quando svolgeva un ruolo familiare valutabile economicamente (si pensi alla madre casalinga).

Chi ha diritto a chiedere il risarcimento dei danni da morte

I soggetti legittimati a chiedere il risarcimento dei danni da morte sono di due categorie: 1. familiari (che vivevano nello stesso nucleo familiare del defunto) e parenti (genitori, fratelli e sorelle, nonni e altri che non sono indicati nello stesso stato famiglia del defunto); 2. persone in rapporto di stretta vicinanza e condivisione di vita col defunto (fidanzati, conviventi).

La differenza tra le due categorie consiste nella maggiore facilità per i primi nel dimostrare il danno da morte, sia nella sua esistenza sia nella sua quantificazione.

Infatti nel primo caso è la legge che presume l’esistenza del danno non patrimoniale (il cd. danno morale), in virtù del particolare legame parentale riconosciuto dall’ordinamento, mentre nel secondo caso esso andrà provato di volta in volta in base alle circostanze concrete e ai rapporti di fatto intrattenuti col defunto.

La misura del risarcimento danni da morte

Per quanto attiene la misura del risarcimento dei danni da morte che i soggetti lesi dall’incidente stradale mortale potranno chiedere, esiste da tempo un sistema tabellare che si è maturato nel tempo con una serie di evoluzioni interpretative che ne hanno fatto un modello sempre più aderente alle varie fattispecie.

Un tempo ciascun tribunale adottava una propria tabella, in cui indicava la misura del danno morale ordinario che si presumeva in base al grado di parentela col defunto: più la parentela era stretta e maggiore era l’entità del danno morale riconosciuto.

A fronte delle disparità di trattamento tra Regione e Regione o tra tribunali dello stretto distretto, si è sentita la necessità di provare a codificare una tabella unica nazionale.

Il legislatore però non è riuscito nell’intento, giungendo soltanto ad emanare una tabella per le lesioni personali fino al grado 9 (cd. lesioni micropermanenti), lasciando un vuoto normativo per quelle superiori ai 9 punti percentuali e per la morte del soggetto.

Così in ipotesi di incidente mortale di solito si fa riferimento alle tabelle del tribunale di Roma o di Milano, che di fatto rappresentano lo standard nella liquidazione del danno delle lesioni macropermanenti e del danno morale da morte (sul punto però si evidenzia che la Corte di Cassazione, con la sentenza del 10 novembre 2021 n. 33005, ha dichiarato non conformi ai principi giurisprudenziali le tabelle di Milano, perché non seguono il sistema a punti nella quantificazione del danno da morte).

Per personalizzare la quantificazione ai danni effettivamente subiti, la tabella considera, oltre al rapporto di parentela, anche altri parametri, tra cui la convivenza o meno col defunto, l’età del superstite e l’età della vittima.

Il giudice potrà comunque discostarsi dai parametri tabellari, nei casi in cui ravvisi delle specificità che impongano una maggiore personalizzazione.

La responsabilità nell’incidente stradale

Prima di poter giungere al riconoscimento del risarcimento dei danni da morte, i danneggiati aventi diritto dovranno dimostrare che il proprio congiunto non avesse la responsabilità di tale evento.

Sembra una considerazione banale, ma molto spesso i familiari danno per scontato che il risarcimento dei danni sia automatico, per il solo fatto di aver patito una sofferenza morale di notevole intensità.

Invece è fondamentale analizzare il comportamento di tutti i soggetti coinvolti nell’incidente in qualità di conducenti, al fine di comprendere se essi abbiano o meno rispettato le norme di comportamento imposte dal Codice della Strada.

Il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni è proporzionale al grado di colpa nel causare l’incidente, per cui se alla vittima sarà addebitato un concorso di colpa al 50%, ai parenti superstiti spetterà un danno da morte pari al 50% di quello totale.

La morte del trasportato nel veicolo

Le considerazioni sulla responsabilità nel provocare l’incidente non si applicano al trasportato.

Infatti il soggetto trasportato sul veicolo coinvolto nell’incidente stradale non ha mai alcuna responsabilità nel provocarlo, perché non era alla guida.

Al massimo l’analisi della sua responsabilità andrà svolta in relazione all’entità dei danni o alla loro derivazione causale col suo comportamento in qualità di trasportato.

Infatti il Codice della strada pone il dovere per il trasportato di allacciare le cinture di sicurezza, al fine di evitare possibili lesioni alla propria persona.

Pertanto qualora venga provato che il trasportato al momento dell’incidente non avesse allacciato le cinture di sicurezza, potrà venirgli addebitata una misura di colpa o addirittura l’intera responsabilità, a seconda delle lesioni patite e della gravità dell’incidente (è noto che le cinture non siano in grado di evitare tutti i tipi di lesioni o di morte).

Riparazioni antieconomiche: quale risarcimento ?

In materia di riparazioni antieconomiche del veicolo (che si verificano quando i danni sono superiori al valore commerciale al momento dell’incidente), la Suprema Corte è costante nell’affermare che “la domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell’art. 2058 c.c., comma 2, di non accoglierla e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di un somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo.

Così si è espressa  la Cassazione Sez. VI – 3, con ordinanza 28/04/2014 n. 9367 (che richiama anche Cass. 12 ottobre 2010, n. 21012; Cass. 4 marzo 1998, n. 2402).

Il fermo tecnico non va risarcito in automatico. Persiste in Cassazione il contrasto.

Il fermo tecnico del veicolo durante le riparazioni non sempre determina un danno da mancato utilizzo.

Il fermo tecnico del veicolo durante le riparazioni non sempre determina un danno da mancato utilizzo.

 

La Suprema Corte si è soffermata ancora una volta sul concetto di

fermo tecnico

del veicolo in riparazione e sulla risarcibilità del danno asseritamente derivante dal suo mancato utilizzo.

Secondo Cass. civ. Sez. III, Sent., 14/10/2015, n. 20620 “Il danno consistente nel costo sostenuto per riparare un autoveicolo è ben diverso da quello patito per non avere potuto disporre del mezzo durante il tempo necessario per le riparazioni, ovvero durante il tempo in cui il veicolo fu tenuto a disposizione dell’assicuratore del responsabile, per le necessarie verifiche.

Il danno in esame non è in re ipsa e non può essere ritenuto sussistente per il solo fatto che un veicolo non abbia circolato perchè in riparazione.

Deve pertanto concludersi nel senso che:

(a) l’indisponibilità d’un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni è un danno che deve essere allegato e dimostrato;
(b) la prova del danno non può consistere nella dimostrazione della mera indisponibilità del veicolo, ma deve consistere nella dimostrazione della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero nella dimostrazione della perdita subita per avere dovuto rinunciare ai proventi ricavati dall’uso del mezzo”.

Nell’articolata motivazione, la Suprema Corte ha esaminato gli opposti orientamenti che nel corso del tempo si erano formati sul tema.

Si riporta la parte della sentenza, in quanto di sicura utilità per gli addetti ai lavori.

“7.4. Da oltre quarant’anni (dal 1972, per l’esattezza) nella giurisprudenza di questa Corte si registra un contrasto irrisolto sulla prova del c.d. danno da fermo tecnico: vale a dire del pregiudizio patito dal proprietario di un veicolo per non averne potuto disporre durante il tempo necessario alle riparazioni.
7.4.1. Secondo un primo e più antico orientamento, il danno da fermo tecnico può essere liquidato “anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato dei veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato”.
Questo orientamento si fonda sull’assunto secondo cui il proprietario di un veicolo a motore, durante il tempo delle riparazioni, sopporta necessariamente una perdita economica pari:
(a) alla tassa di circolazione;
(b) al premio di assicurazione;
(c) al deprezzamento del veicolo.
La sentenza “capostipite” in tal senso è rappresentata da Sez. 3, Sentenza n. 2109 del 23/06/1972, Rv. 359341; in seguito, nello stesso senso, si sono pronunciate Sez. 3, Sentenza n. 13215 del 26/6/2015, non massimata; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22687 del 04/10/2013, Rv.
629051; Sez. 3, Sentenza n. 9626 del 19/04/2013, Rv. 626034; Sez. 3, Sentenza n. 6907 del 8.5.2012, non massimata; Sez. 3, Sentenza n. 23916 del 09/11/2006, Rv. 593159: Sez. 3, Sentenza n. 17963 del 14/12/2002, Rv. 559270; Sez. 3, Sentenza n. 12908 del 13/07/2004, Rv.
574496; Sez. 3, Sentenza n. 3234 del 03/04/1987, Rv. 452307; Sez. 3, Sentenza n. 4009 del 28/08/1978, Rv. 393612; Sez. 3, Sentenza n. 1737 del 05/05/1975, Rv. 375375.
7.4.2. Per un diverso e più recente orientamento, invece, il danno da fermo tecnico non può considerarsi sussistente in re ipsa, quale conseguenza automatica dell’incidente. Esso può essere risarcito soltanto al cospetto “di esplicita prova” non solo del fatto che il mezzo non potesse essere utilizzato, ma anche del fatto che il proprietario avesse davvero necessità di servirsene, e sia perciò dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi, ovvero abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo.
Questo orientamento, inaugurato da Sez. 3, Sentenza n. 970 del 07/02/1996, Rv. 495753, è stato in seguito ribadito da Sez. 3, Sentenza n. 12820 del 19/11/1999, Rv. 531285 e da Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15089 del 17.7.2015, non massimata.
7.4.3. Ritiene questa Corte che il primo di tali orientamenti non possa essere condiviso, perchè tutti e sei gli assunti su cui si fonda sono erronei.
7.4.4. E’ erronea, in primo luogo, l’affermazione secondo cui il danno causato dall’indisponibilità d’un veicolo sia in re ipsa: nel nostro ordinamento infatti non esistono danni in rebus ipsis, e nessun risarcimento è mai esigibile se dalla lesione del diritto o dell’interesse non sia derivato un concreto pregiudizio (ex multis, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 24474 del 18/11/2014, Rv. 633450; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 18812 del 05/09/2014, Rv. 632941; Sez. 1, Sentenza n. 23194 del 11/10/2013, Rv. 628570; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013, Rv. 627750).
Il danno in senso giuridico, infatti, non può dirsi esistente sol perchè sia stato vulnerato un diritto. La lesione del diritto è il presupposto del danno, non il danno in senso giuridico. Quest’ultimo vi sarà soltanto se dalla lesione del diritto sia altresì derivata una perdita, patrimoniale o non patrimoniale che sia.
7.4.5. E’ erronea, in secondo luogo, l’affermazione secondo cui una volta dimostrato che il veicolo sia stato inutilizzabile per un certo numero di giorni, il danno può essere per ciò liquidato “in via equitativa” ex art. 1226 c.c..
Una simile affermazione costituisce anzi una falsa applicazione del precetto di cui all’art. 1226 c.c.. Tale norma, infatti, non può costituire un commodus discessus per l’attore che non provi l’esistenza del danno. La liquidazione equitativa è consentita quando il danno sia certo nella sua esistenza, ma indimostrabile nel suo ammontare, mentre l’orientamento qui contestato ricorre all’art. 1226 c.c. , per liquidare un danno che è addirittura incerto nella sua stessa esistenza.
7.4.5. E’ erronea, in terzo luogo, l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno, pari alla spesa sostenuta dal proprietario per la c.d. “tassa di circolazione”.
La tassa di circolazione, già prevista dal D.P.R. 5 febbraio 1953, n. 39 , è stata trasformata in tassa sulla proprietà dal D.L. 30 dicembre 1982, n. 953, art. 5, comma 29, (convertito nella L. 28 febbraio 1983, n. 53 ).
La norma appena ricordata stabilisce che la tassa è dovuta per il solo fatto dell’iscrizione del veicolo nel pubblico registro automobilistico, ed a prescindere dalla sua circolazione.
Non è quindi corretto sostenere che la tassa sia stata “pagata invano” nel caso di sosta forzosa del veicolo, perchè il fatto costitutivo dell’obbligazione tributaria è la proprietà del veicolo, non la sua circolazione.
7.4.6. E’ erronea, in quarto luogo, l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno, pari al premio assicurativo “inutilmente pagato”.
Tale affermazione è doppiamente erronea.
In primo luogo, è erronea perchè il rischio che il veicolo possa causare danni a terzi non viene meno durante il periodo della riparazione (ad es., nel caso di incendio o di danni causati a terzi durante il collaudo), e dunque il premio non è “inutilmente pagato”.
In secondo luogo è erronea perchè durante il periodo della riparazione il proprietario potrebbe chiedere all’assicuratore la sospensione dell’efficacia della polizza, sicchè, ove non si avvalga di questa semplice precauzione, il pagamento del premio non potrebbe costituire un danno risarcibile, perchè dovuto a negligenza del danneggiato ( art. 1227 c.c.).
7.4.7. E’ erronea, in quinto luogo, l’affermazione secondo cui il danno da fermo tecnico sarebbe in re ipsa a causa del “deprezzamento del veicolo”.
In primo luogo, infatti, il deprezzamento è causato dalla necessità della riparazione, non dalla durata di questa.
In secondo luogo, il deprezzamento d’un veicolo non è una conseguenza necessaria del fermo tecnico, ma un danno eventuale e da accertare caso per caso. Così, ad esempio, la riparazione d’un veicolo obsoleto e malandato potrebbe addirittura fargli acquistare un valore superiore a quello che aveva prima del sinistro.
7.4.7. E’ inaccettabilmente erronea, infine, l’affermazione secondo cui l’indisponibilità del veicolo durante il tempo delle riparazioni costituirebbe un danno patrimoniale “a prescindere dall’uso a cui esso era destinato”.
Non potere utilizzare un veicolo per svago o diporto non costituisce una perdita patrimoniale, ma un pregiudizio d’affezione: come tale non risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. , mancando la lesione d’un interesse della persona costituzionalmente garantito”.

Il terzo trasportato deve provare solo il suo danno, non la responsabilità dei conducenti.

In applicazione dell’articolo 141 del Codice delle Assicurazioni, il terzo trasportato per essere risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro, deve fornire la prova di aver subito un danno a seguito del sinistro, ma non delle modalità dell’incidente al fine di individuare le responsabilità dei rispettivi conducenti.
In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 30 luglio 2015, n. 16181.
In pratica la sentenza chiarisce che l’azione diretta del terzo trasportato contro l’impresa assicuratrice del veicolo, non è legata all’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nell’incidente.

Rapporti tra la procedura di risarcimento diretto e quella ordinaria

Si ricorda il principio espresso dalla Corte Costituzionale con ordinanza 28/05/2010 n° 192, in tema di procedure di risarcimento danni utilizzabili dal danneggiato:

Il Codice delle assicurazioni si è limitato a rafforzare la posizione dell’assicurato rimasto danneggiato, considerato soggetto debole, legittimandolo ad agire direttamente nei confronti della propria compagnia assicuratrice, senza peraltro togliergli la possibilità di fare valere i suoi diritti secondo i principi della responsabilità civile dell’autore del fatto dannoso”.

Ne discende che la procedura del risarcimento diretto non è esclusiva o assorbente, restando sempre la possibilità per il danneggiato di utilizzare la procedura ordinaria di risarcimento danni.

Quando spetta il rimborso delle spese legali sopportate per la gestione della pratica di risarcimento dei danni

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11154 del 29/05/2015 si è espressa in materia di rimborso al danneggiato delle spese legali sopportate per la gestione della pratica di risarcimento dei danni.

Così recita la decisione ” … le spese consistite in compensi professionali saranno risarcibili o meno non già in base alla veste del percettore (sì al medico legale, no all’avvocato), ma in base alla loro effettiva necessità: dovrà perciò ritenersi sempre risarcibile la spesa per compensare un legale, quando il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando la vittima non ha ricevuto la dovuta assistenza, ex art. 9, co. l, d.p.r. 254/2006, dal proprio assicuratore. Per contra, sarà sempre irrisarcibile la spesa per compensi all’avvocato, quando la gestione del sinistro non presentava alcuna difficoltà, i danni da esso derivati erano modestissimi, e l’assicuratore aveva prontamente offerto la dovuta assistenza al danneggiato.

Quindi il problema delle spese legali va correttamente posto in termini di “causalità”, ex art. 1223 c.c., e non di risarcibilità”. Da ciò consegue, ovviamente, che l’art. 9, 2° co., d.p.r. 254/2006, se inteso nel senso che esso vieta tout court la risarcibilità del danno consistito nell’erogazione di spese legali, deve essere ritenuto nullo per contrasto con l’art. 24 Cost., e va disapplicato”.

Il danno morale da lesioni micropermanenti va provato

In materia di danno morale da lesioni micropermanenti la Corte Costituzionale, 16-10-2014, n. 235 ha deciso che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’ art. 139 del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 32, 76 e 117, primo comma, Cost. , nonché 2, 3, 6 e 8 della CEDU, 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima, 6 del Trattato UE, 1 e 3, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali UE.

Nella motivazione la Corte delle leggi ha affermato che “L’asserita esclusione della liquidabilità del danno morale si fonda su una premessa interpretativa erronea, posto che esso, secondo la giurisprudenza di legittimità, rientra nell’area del danno biologico e, ricorrendone in concreto i presupposti, può essere giudizialmente riconosciuto”.

 

La presunzione di colpa ex art. 2054 cc ha carattere sussidiario

In tema di circolazione stradale, la presunzione del concorso di colpa a carico di entrambi i conducenti, di cui al secondo comma dell’art. 2054 cod. civ. , ha carattere sussidiario, operando soltanto in difetto di prova contraria, con la conseguenza che il giudice non può farvi ricorso dopo aver dichiarato irrilevanti le richieste istruttorie sulla dinamica dello scontro formulate da una parte, sul presupposto che vi fosse stata ammissione di responsabilità da parte dell’altro conducente.

Questo è quanto deciso dalla Cass. civ. Sez. VI – 3 con Ordinanza del 14-03-2013, n. 6483.

Risarcimento ridotto ai congiunti se la vittima ha concorso nell’evento mortale

In materia di responsabilità civile, in caso di concorso della condotta colposa della vittima di un illecito mortale nella produzione dell’evento dannoso, il risarcimento del danno, patrimoniale e non, patito “iure proprio” dai congiunti della vittima deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ad essa ascrivibile.

Così si è espressa Cass. civ. Sez. III, 04-11-2014, n. 23426.